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DAZIO, etimologia e significato

Nella lingua italiana, la parola dazio indica un'imposta, un diritto doganale applicato alla circolazione di beni, tipicamente nel contesto del commercio tra Stati o, in passato, tra diverse entità comunali. Il termine ha origine nel latino medievale datio (-onis), che inizialmente significava "dare,  consegnare", da cui deriva anche la forma successiva datium (-ii). Le fonti lessicografiche moderne definiscono dazio come un'imposta indiretta sui consumi, che grava sul passaggio di beni tra Stati (dazio esterno o doganale) oppure, storicamente, tra comuni diversi (dazio interno). Possiamo distinguere vari tipi di dazi: d'importazione ed esportazione, d'entrata e d'uscita, e ancora tra dazi fiscali, pensati per generare entrate statali, e dazi economici, di tipo protettivo o industriale, mirati a difendere determinati settori produttivi nazionali. Nel latino classico, datio aveva un significato più ampio legato all'atto del "dare". Nel diritto romano si usava principalmente in due contesti: come "atto del dare", ad esempio in datio in solutum (pagamento in natura) e come "nomina", come in datio tutoris (nomina di un tutore). Durante il Medioevo, il significato di datio e della variante datium si restrinse, riferendosi in modo più preciso a un pagamento o contributo imposto da un'autorità. Così si è evoluto nel senso moderno di "tassa" o "dazio", riflettendo i cambiamenti nei sistemi fiscali e nelle pratiche amministrative dell'Europa post-romana. In quest'epoca troviamo proprio datium usato per indicare una tassa. Gli studi linguistici mostrano che il verbo latino dare, e quindi anche datio, ha origine dalla radice protoindoeuropea deh₃-. Il latino dare deriva dal protoitalico didō, a sua volta dal protoindoeuropeo dédeh₃ti, tutti con il significato di "dare". Numerose testimonianze storiche confermano l'uso diffuso del dazio come strumento fiscale nell'Italia medievale e rinascimentale. Siena, ad esempio, imponeva un dazio già nel XIII secolo. Milano possedeva una cinta daziaria (una sorta di confine doganale) e caselli daziari nel Medioevo. Anche Firenze faceva uso dei dazi, mentre Venezia ne dipendeva fortemente per le entrate derivanti dal commercio. Il termine gabella era usato in modo più ampio per indicare tasse e dazi, spesso come sinonimo o accanto a dazio. A Siena, per esempio, si parlava di Gabella, mentre a Bronte, in Sicilia, sono documentate sia le gabelle che i dazi. La presenza continua del termine dazio nei documenti storici di vari Stati italiani dimostra il suo ruolo duraturo come leva fiscale. L'esistenza di confini doganali interni e caselli daziari mette in luce la frammentazione politica dell'Italia per molti secoli. Tra il XVI e il XVIII secolo, nel periodo dominato dal mercantilismo, i dazi venivano utilizzati per proteggere le industrie nazionali e favorire l'accumulo di ricchezza attraverso surplus commerciali. Le potenze coloniali europee imponevano dazi per regolare gli scambi con le colonie, sempre a vantaggio della madrepatria. Nel XIX secolo, con l'ascesa del liberalismo economico, prese piede il libero scambio, come dimostrato dall'abolizione delle Corn Laws in Gran Bretagna nel 1846. Tuttavia, altri paesi come gli Stati Uniti e la Germania mantennero politiche protezionistiche per tutelare le loro industrie emergenti. Nel XX secolo, la Grande Depressione portò a un ritorno al protezionismo, culminato nello Smoot-Hawley Tariff Act del 1930, che aggravò la crisi economica mondiale. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, si incentivò invece la riduzione dei dazi per stimolare il commercio internazionale. Nel XXI secolo, i dazi sono tornati sotto i riflettori a causa di nuove tensioni commerciali, come la guerra tariffaria tra Stati Uniti e Cina durante l'amministrazione Trump.

Il dazio

APOSIOPESI, etimologia e significato

L'aposiopesi  è una figura retorica autentica consistente nell'interruzione inaspettata di una frase, come se l'enunciante non fosse in grado o non volesse continuare a parlare, conferendo una forza espressiva molto potente. Questa interruzione, lasciando sulla mente dell'ascoltatore l'immaginazione della conclusione mancata, si rivela molto utile per esprimere empatia intensa ovvero per indicare senso non dichiarato. A volte l'aposiopesi si presenta anche come una pausa tattica antecedente a un cambio di soggetto. Come figura retorica, l'aposiopesi  si colloca all'interno dell'ambito dell'arte retorica del discorso persuasivo, ed il suo esame esige una ricercata indagine delle sue origini etimologiche.

La parola "aposiopesi" deriva dall'antico greco ἀποσιώπησις (aposiṓpēsis). La derivazione viene confermata da numerose fonti lessicografiche. Rilevando la parola greca ἀποσιώπησις, si possono isolare due elementi primari: ἀπό (apó) e σιωπάω (siōpáō) la cui unione significava "essere silenzioso" ovvero "diventare silenzioso". La componente āπό si traduce letteralmente "via da", "da" ovvero "fuori da" ed indica allontanarsi ovvero distanziarsi dall'altro elemento rispetto a sé in quanto elementi separanti tra loro. Invece σιωπάω si riferisce a "tacere", ovvero "essere in silenzio". A questi si aggiunge il suffisso greco -σις (-sis), che contribuisce a costituire il sostantivo degli elementi anzidetti.

La concordanza sul significato di ἀπό come separazione e di σιωπάω come verbo del silenzio suggerisce che l’aposiopesi implichi intrinsecamente una cessazione deliberata o un distacco dal discorso. Dal punto di vista etimologico, ἀπό deriva dal proto-ellenico apó, a sua volta dalla radice protoindoeuropea h₂epó, che significava “via, lontano”. Le molteplici accezioni di ἀπό suggeriscono in aposiopesi possa indicare non solo l’interruzione del discorso, ma anche una separazione da un argomento, l’origine di un pensiero segnato dal silenzio, o persino un senso di compiutezza di ciò che viene taciuto. La diffusione dei derivati da h₂epó nei diversi rami indoeuropei testimonia un concetto fondamentale di “allontanamento” già presente nella protolingua, confermando l’antichità di questo elemento linguistico. Il verbo greco σιωπάω (siōpáō) significa “tacere”, “mantenere il silenzio”, “stare quieto”.  Nei testi classici, il verbo veniva utilizzato anche per mantenere un segreto. σιωπάω deriva da σιωπή, che significa “silenzio”, “calma”. La doppia natura di σιωπάω, che include sia il silenzio letterale sia una calma metaforica, suggerisce che l’aposiopesi possa implicare un’interruzione deliberata del discorso per ottenere un effetto, non semplicemente per incapacità di proseguire. L’uso classico connesso alla segretezza introduce l’idea di una possibile strategia nell’uso dell’aposiopesi: omettere qualcosa volutamente. È interessante notare che l’etimologia di σιωπή è incerta. Diverse fonti indicano un’origine non indoeuropea, probabilmente da un sostrato pre-greco, evidenziata dall’alternanza delle forme σιωπ- e σωπ-. Il linguista Robert Beekes ha sostenuto con decisione questa origine, individuando molte acquisizioni di lemmi pre-greci nel vocabolario greco. Una teoria alternativa, proposta da Abarim Publications, ipotizza un’origine semitica per σιωπή, collegandola a radici ebraiche legate alla separazione e alla fine (ספף שפף) o alla quiete (חרש, דמם). 

L’uso dell’aposiopesi si manifesta non solo nell’oratoria, ma anche nella letteratura, nei film ed anche nelle conversazioni quotidiane. A livello letterario, autori classici come Shakespeare, Dante ed il Manzoni hanno utilizzato questa figura per trasmettere tensione emotiva o per indicare l’indicibile. Per quanto in materia di film, la brusca sospensione del dialogo può enfatizzare la drammaticità di una scena ovvero rivelare lo stato di spirito di un personaggio. Anche nelle conversazioni quotidiane, la frase lasciate a metà possono esprimere rabbia, sorpresa, la paura ovvero l’imbarazzo rendendo l’aposiopesi strumento di comunicazione immediata e universalmente comprensibile. La linguistica moderna continua a riconoscere l'aposiopesi come uno strumento retorico rilevante. La ricerca contemporanea si concentra sul suo ruolo sfumato nella comunicazione, inclusa la sua capacità di trasmettere significati impliciti e coinvolgere l'immaginazione del pubblico. 

Aposiopesi

PALINSESTO, etimologia e significato

La parola palinsesto deriva dal greco antico παλίμψηστος (palímpsēstos) , composto da πάλιν (pálin = di nuovo) e ψῆστος (psêstos, derivato da psào = raschiare). Letteralmente, indica un oggetto "raschiato di nuovo". Il termine compare in Quintiliano (Institutio Oratoria , I, 1, 21), che paragona la mente umana a un palinsesto, sottolineando la capacità di sovrascrivere conoscenze. Il verbo greco psào risale alla radice protoindoeuropea peis- = tagliare, raschiare. In sanscrito, il verbo picchāti = coprire, spalmare condivide questa radice, evidenziando una connessione semantica tra azioni di cancellazione e rinnovo nell'area indoeuropea. I palinsesti divennero comuni nell'antichità e nel Medioevo, quando il costo elevato del pergamena spinse al riutilizzo dei supporti. Esempi storici : Il Palinsesto di Archimede (X sec. d.C.): Conteneva opere del matematico greco, raschiate nel XIII sec. per scrivervi preghiere; il Codex Ephraemi Rescriptus (V sec. d.C.): Un manoscritto biblico greco sovrascritto con sermoni cristiani nel XII sec. Nei monasteri medievali, i testi pagani venivano spesso cancellati per far spazio a contenuti cristiani, riflettendo un controllo ideologico sulla conoscenza. Il riutilizzo dei manoscritti non era solo pratico, ma anche politico. Nell'Impero Bizantino, ad esempio, la cancellazione di testi classici a favore di contenuti religiosi rafforzava l'identità cristiana: Nel Medioevo europeo, la Chiesa consolidò la sua autorità attraverso la selezione di testi, cancellando eredità pagane. Attualmente l''uso di tecnologie come l'imaging multispettrale per leggere gli strati nascosti dei palinsesti (es. il Palinsesto di Archimede, studiato da Reviel Netz) riflette lo sforzo volto a ricostruire le opere del passato.

Palinsesto

RITO, etimologia e significato

Con la parola rito o rituale (aggettivo sostantivato) si intende un insieme di atti formali, simbolici e spesso ripetuti che assumono significati profondi all'interno di una determinata comunità o contesto. Il termine è strettamente connesso alla dimensione sacra, ma il suo impiego si estende anche alla sfera civile e politica, riflettendo l'evoluzione delle società umane nel corso dei millenni. La parola "rito" deriva dal latino ritus, che significa "uso, costume, cerimonia religiosa". Questo termine, a sua volta, è collegato alla radice protoindoeuropea (H)réi-  (in cui la H indica una laringale), che racchiude i significati di "ordine, regola, misura, disposizione appropriata". La radice (H)réi- è fondamentale per comprendere il concetto originario di "rito". Questa radice esprime l'idea di un "movimento in linea retta" o di un "andamento ordinato", concetti che sono metaforicamente estesi alla nozione di "regola" o "ordine stabilito". Il legame semantico tra ordine e ritualità emerge chiaramente nella funzione dei riti come strumenti per stabilire e mantenere un ordine cosmico, sociale o politico. Questa radice è attestata in diversi termini delle lingue indoeuropee. In sanscrito, il termine ṛta (ṛtaṁ) significa "ordine, legge, verità" ed è strettamente connesso al concetto vedico di ṛta, che rappresenta l'ordine cosmico e morale dell'universo. Nei Veda, ṛta è la forza che governa il cosmo e le azioni rituali sono viste come un mezzo per mantenere quest'ordine; in greco antico: Il termine ἀριθμός (arithmós), che significa "numero", riflette l'idea di ordine e disposizione; in gotico,Il termine reišs ("modo, maniera") mostra come la radice si estenda al significato di "procedura stabilita"; nell'antico inglese troviamo riht ("diritto, giusto") e nel tedesco recht ("legge, diritto"). Tutte queste parole derivano dalla stessa radice e condividono il significato di "regola giusta".

In latino, ritus si riferisce inizialmente a "un insieme di pratiche consuetudinarie" che regolano tanto le cerimonie religiose quanto le usanze sociali. Il significato originale si collega all’idea di un comportamento stabilito e approvato, che garantisce la coesione di una comunità. Con il tempo, il termine acquisì una connotazione più specificamente religiosa, indicando i dettagli formali dei culti. Nel contesto romano, il "rito" è strettamente associato ai mores maiorum, cioè i costumi degli antenati, che rappresentano una sintesi di norme morali, sociali e religiose. I ritus non erano semplicemente azioni sacre, ma strumenti per mantenere la "pax deorum", l’equilibrio tra gli uomini e gli dei, fondamentale per il successo dello Stato romano. Fin dall’antichità, il rito è stato utilizzato come strumento per legittimare il potere politico e religioso. In molte società, i governanti erano anche i principali officianti dei rituali, rafforzando così il loro ruolo come intermediari tra il mondo umano e quello divino. Nella civiltà vedica: I riti sacrificali (yajña) erano eseguiti per mantenere l'ordine cosmico (ṛta) e garantire la prosperità del regno; nell'antica Roma, i riti pubblici, come quelli celebrati dai pontefici e dagli auguri, erano essenziali per l'organizzazione dello Stato. L’osservanza scrupolosa dei riti garantiva la legittimità delle decisioni politiche e militari. 

Con l’avvento dell’età moderna, il concetto di rito si è trasformato, adattandosi a nuovi contesti sociali, politici e culturali. Mentre i riti religiosi continuavano a svolgere un ruolo importante, nuove forme di ritualità si svilupparono nelle sfere laiche e civili. Nell’età moderna, i riti divennero strumenti per consolidare l’identità nazionale. Cerimonie come incoronazioni, parate militari e celebrazioni nazionali furono utilizzate per rafforzare il senso di appartenenza a uno Stato. Gli studi di autori come Emile Durkheim e Victor Turner hanno evidenziato come i riti, anche in contesti non religiosi, siano fondamentali per la coesione sociale. Durkheim definì i riti come "atti collettivi che rafforzano la solidarietà sociale", mentre Turner li interpretò come momenti liminali, cioè di transizione e trasformazione. Nell’età contemporanea, i riti laici hanno assunto crescente importanza. Eventi come cerimonie di laurea, matrimoni civili e manifestazioni pubbliche si configurano come momenti rituali che conferiscono significato e valore ai passaggi della vita individuale e collettiva. In un mondo sempre più globalizzato, i riti hanno acquisito una dimensione interculturale. Da un lato, molti riti tradizionali sono stati adattati o reinterpretati per rispondere alle sfide della modernità; dall’altro, si sono sviluppati nuovi rituali, legati a fenomeni come i social media e la cultura di massa. Un esempio è rappresentato dalle celebrazioni sportive internazionali, che funzionano come rituali globali di partecipazione collettiva. Il rito è sempre stato un elemento centrale nella definizione dell’identità culturale di un popolo. Attraverso la ripetizione di gesti e parole codificati, le comunità riaffermano i propri valori e la propria visione del mondo. Inoltre, i riti fungono da meccanismi di inclusione ed esclusione, definendo chi appartiene a una determinata comunità e chi ne è escluso.

Rito

MIRRA, etimologia e significato

La mirra è una resina aromatica, estratta da un albero o arbusto del genere Commiphora, della famiglia delle Burseraceae. La specie più comune per la sua produzione è la Commiphora myrrha (diffusa in Somalia, Etiopia, Sudan, penisola arabica). A fine estate, la pianta fiorisce e sul tronco compaiono una serie di noduli, dai quali cola la mirra, in piccole gocce gialle, che vengono raccolte una volta seccate. L'origine della parola mirra è profondamente radicata nella famiglia delle lingue semitiche, dove si rintraccia nella radice m-r-r. Questa radice è associata al concetto di "amarezza", in riferimento sia al sapore caratteristico della mirra sia alla sua natura simbolica legata al dolore e alla purificazione. In Ebraico antico la parola mōr (מוֹר) indica chiaramente la mirra e compare frequentemente nei testi biblici, tra cui il Cantico dei Cantici (4:6: "Io andrò al monte della mirra, al colle dell'incenso") e nei riferimenti al culto del Tempio. Qui, la mirra è sinonimo di sacralità e preziosità. In aramaico, la parola mūrā (ܡܘܪܐ) mantiene il significato di "resina amara", sottolineandone l'uso rituale e medicinale. L'arabo murr (مرّ), che significa "amaro", denota sia il sapore della mirra sia il suo valore commerciale nel mondo arabo pre-islamico e islamico. La parola mirra venne adattata dal greco antico come μύρρα (mýrrha), con una variante parallela σμύρνα (smyrna). L'adozione della parola nel greco riflette l'importanza della resina nell'economia e nella cultura mediterranea. Erodoto (V secolo a.C.) descrive la mirra come una delle merci preziose trasportate lungo le rotte commerciali tra l'Arabia Felix (la moderna Penisola Arabica meridionale) e il mondo greco. La parola "smyrna" diede il nome alla famosa città di Smirne (oggi Izmir, in Turchia), un importante centro di commercio di spezie e resine aromatiche. Dal greco, la parola passò nel latino come myrrha, mantenendo il suo significato originario di "resina aromatica". Autori latini come Plinio il Vecchio, nelle sue Naturalis Historia, e Virgilio, nell’Eneide, citano la mirra sia come sostanza sacra sia come ingrediente per la fabbricazione di profumi nel Medio Oriente, in Egitto, e successivamente nel mondo greco-romano. Essa era utilizzata come: elemento rituale (in Egitto, la mirra era un ingrediente fondamentale nel processo di imbalsamazione. Era ritenuta essenziale per preservare il corpo, simboleggiando l'immortalità e il collegamento con il divino; come offerta religiosa (nelle culture mesopotamiche e semitiche, la mirra veniva bruciata come incenso durante i sacrifici, per onorare gli dèi e purificare gli ambienti sacri; come simbolo biblico (la mirra è menzionata nel Vangelo secondo Matteo (2:11) come uno dei doni offerti dai Magi a Gesù bambino, insieme all’oro e all’incenso. In questo contesto, simboleggia la mortalità di Cristo e prefigura la sua passione e morte). Gli antichi attribuivano alla mirra proprietà terapeutiche. Ippocrate, Galeno e Dioscoride la citano nei loro trattati di medicina. Era utilizzata per disinfettare ferite e prevenire infezioni, alleviare dolori e disturbi gastrointestinali, come ingrediente in unguenti e balsami per lenire la pelle.  Riassumendo, questa resina è stata uno degli ingredienti più apprezzati nella fabbricazione di profumi fin dall’antichità. I Greci e i Romani ne facevano largo uso nei cosmetici, oli per il corpo e unguenti aromatici. Nel Medioevo, la mirra continuò a essere utilizzata sia per scopi religiosi sia medicinali. Divenne un simbolo della sofferenza di Cristo, evocando il sacrificio e la redenzione. Oggi la mirra è impiegata principalmente in fitoterapia, aromaterapia e nella produzione di cosmetici naturali. Ha anche un ruolo limitato nella produzione di incensi e profumi.

La mirra

GIUBILEO, etimologia e significato

La parola giubileo deriva dal latino iubilaeus o annus iubilaeus (anno giubilare), che a sua volta proviene dall’ebraico יוּבל (yovel). Questo termine ebraico significa letteralmente "ariete" o "corno d’ariete", lo strumento utilizzato per annunciare l’inizio dell’anno giubilare secondo la tradizione biblica. La radice ebraica יבל (ybl) indica il concetto di "trasportare" o "condurre", con un riferimento simbolico al ritorno alla condizione originaria di equilibrio e armonia. Nel contesto biblico, lo “yovel” era proclamato ogni cinquant’anni e segnava un periodo di remissione dei debiti, liberazione degli schiavi e restituzione delle terre. Il concetto si trova principalmente nel libro del Levitico (25, 8-13), dove viene descritta la pratica del Giubileo come un momento di rigenerazione sociale ed economica per il popolo di Israele. Quando la tradizione ebraica venne recepita dal cristianesimo, il termine “yovel” fu tradotto nella versione greca dei Settanta come ἵὐβηλος (iobel) e poi nel latino ecclesiastico come "iubilaeus". Qui si verificò un cambiamento semantico significativo: il termine latino acquisì anche il significato di "gioia" o "esultanza", probabilmente influenzato dalla radice latina "iubilare" (esultare, gridare di gioia). Nel Medioevo, il termine "giubileo" divenne strettamente legato alla tradizione cristiana, in particolare alla Chiesa cattolica. Fu papa Bonifacio VIII, nel 1300, a istituire formalmente il primo Giubileo cristiano come un anno di indulgenza plenaria, invitando i fedeli a recarsi in pellegrinaggio a Roma per ottenere la remissione dei peccati. Da quel momento in poi, il Giubileo assunse una dimensione politica oltre che spirituale: la celebrazione attirava un enorme flusso di pellegrini nella città eterna, rafforzando l’autorità della Chiesa e consolidando Roma come centro del mondo cristiano. Dal punto di vista linguistico, il termine "giubileo" si radicò nelle lingue romanze. In italiano, la parola mantenne il doppio significato di "anno giubilare" e "grande festa", riflettendo sia l’aspetto sacro che quello popolare della celebrazione. Il Giubileo ha sempre avuto una forte connotazione politica, specialmente in epoca medievale e rinascimentale. Le celebrazioni giubilari rappresentavano un’occasione per riaffermare l’egemonia papale e promuovere l’unità del mondo cristiano sotto la guida di Roma. Inoltre, i pellegrinaggi legati al Giubileo generavano un impatto economico significativo, favorendo il commercio e lo sviluppo delle infrastrutture cittadine. Durante l’epoca moderna, il significato del Giubileo si è ampliato ulteriormente. Ad esempio, il Giubileo del 2000, proclamato da papa Giovanni Paolo II, non fu solo un evento religioso, ma anche un momento di dialogo interreligioso e di riflessione sul futuro dell’umanità. In questo contesto, pur mantenendo le sue radici nella tradizione biblica, il termine "giubileo" ha assunto una dimensione universale.

Giubileo - Apertura della Porta Santa

CORRUZIONE, etimologia e significato

L'origine ultima della parola corruzione si rintraccia nella radice protoindoeuropea r(e)up-, che significa "rompere", "spezzare" o "disintegrare". Questa radice è associata a termini in diverse lingue indoeuropee che condividono il significato di frattura, degradazione o perdita di integrità. Essa è alla base del verbo latino rumpere ("rompere"), dal quale deriva corrumpere. Il prefisso cor-, una forma assimilata di com-, indica "insieme" o "completamente", mentre rumpere mantiene il significato di "rompere". Il verbo corrumpere, dunque, significa letteralmente "rompere completamente" o "guastare completamente", con un'accezione che presto si estende all'idea di alterare, guastare o distruggere moralmente e fisicamente.
Il sostantivo corruptio, corruptionis viene derivato direttamente dal participio passato corruptus, che già in epoca classica era usato in senso figurato per indicare la degradazione morale, la corruzione politica o il decadimento materiale. Nella Roma repubblicana e imperiale, la corruptio era spesso associata al malgoverno, alla manipolazione elettorale e alla decadenza morale. Tacito e Cicerone usano frequentemente il termine per descrivere la decadenza delle istituzioni politiche e la perdita dei valori tradizionali. Il concetto di corruzione era inoltre profondamente legato al diritto: il termine indicava reati come il peculato e il clientelismo, pratiche che minavano l'integrità dello Stato. La corruptio morum ("degradazione dei costumi") era un tema centrale nella riflessione filosofica e politica di autori come Seneca, che la vedeva come il segno di una società in declino.
Con la caduta dell'Impero Romano e la trasformazione del latino volgare nelle lingue romanze, il termine corruptio viene progressivamente adattato. In italiano, già nei primi testi medievali, si incontra la forma corruzione, che conserva sia il significato letterale di alterazione materiale che quello figurato di degrado morale e sociale.
Nel Medioevo, la corruzione viene interpretata prevalentemente in chiave morale e teologica. La dottrina cristiana lega strettamente la corruzione al peccato originale, identificandola con la degenerazione dell'anima e con la caduta dell'uomo.
Con il Rinascimento, la parola acquisisce una dimensione politica più marcata. Machiavelli, ad esempio, usa il termine per indicare la degenerazione delle istituzioni repubblicane e la perdita della virtù civica, considerandola una delle principali cause del declino degli Stati.
In epoca moderna, il concetto di corruzione si diversifica ulteriormente. In ambito politico, diventa sinonimo di abuso di potere per guadagni privati, un tema cruciale negli studi di economia e scienze politiche. La parola viene associata anche a fenomeni come il nepotismo, il clientelismo e la frode. Nel XX e XXI secolo, il termine assume un significato globale, legandosi a temi come la trasparenza, la governance e lo sviluppo economico. Organizzazioni internazionali come Transparency International utilizzano il concetto di corruzione per misurare l'integrità dei governi e delle istituzioni in tutto il mondo.

Corruzione